Muore dopo infezione di klebsiella. I familiari: "Non accada più. Vogliamo giustizia per la nostra Ines"

Muore dopo infezione di klebsiella. I familiari: "Non accada più. Vogliamo giustizia per la nostra Ines"
di Roberta Grassi
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Mercoledì 28 Ottobre 2015, 12:24 - Ultimo aggiornamento: 12:25
BRINDISI - «Persone fantastiche, medici preparati, infermieri accorti e gentili. Ma quell'ospedale ha carenze strutturali gravi. E' come se fai gareggiare su una Cinquecento un pilota di formula uno». La nuova battaglia della famiglia di Ines ha prima di tutto un obiettivo: ottenere verità e giustizia. Ma c'è poi anche il desiderio di contribuire a cambiare le cose: «Non deve accader mai più. Lo facciamo solo per lei, del resto è l'ultima cosa che ci resta da fare» racconta il marito, Salvatore Rotundo. Gli occhi diventano rossi quando dai referti emerge l'anno di nascita della moglie che lo ha lasciato venerdì scorso: nata nel 1961, aveva 54 anni. Ma non c'è spazio per le lacrime. E' il momento di continuare a combattere, proprio come nei mesi che sono trascorsi da maggio a ottobre. Mesi difficili, di grande scoramento ma anche di speranza. «Era tornata a casa. Pesava 42 chili. Ma eravamo fiduciosi - spiega - per la remissione della malattia che ci era stata certificata dai medici. Aveva sconfitto anche l'infezione da Klebsiella che ha contratto durante la chemioterapia».



A casa Ines aveva rimesso su qualche chilo: «Con il nostro aiuto riusciva anche a camminare. Ci siamo affidati ai dottori del Perrino sulla cui professionalità non intendiamo gettare alcuna ombra. Sono stati bravissimi, anche da un punto di vista umano». Salvatore, i tre figli, avevano avvistato una luce in fondo al tunnel. Brillava a Bologna, nella struttura sanitaria in cui sarebbe stata ricoverata per il trapianto. C'era già una donatrice. Tutto pronto. «Non ci siamo arrivati. E ora vogliamo sapere perché. Vogliamo che anche tutti gli altri che vengono a curarsi qui abbiano cognizione dei fatti. Non ci serve un risarcimento del danno. Se mai un giorno ci dovesse essere riconosciuto del denaro lo daremmo tutto in beneficenza per contribuire a migliorare l'assistenza per i malati di leucemia». Il racconto del calvario è lucido. Salvatore ha appuntato su un foglietto tutte le date. Parla per sé, per i tre ragazzi. Misura le parole, non vuole attribuire ad alcuno, fra coloro che hanno avuto un ruolo nella triste storia di Ines , una precisa responsabilità in merito ai fatti. Neppure alla Klebsiella : «Non possiamo affermare nulla con certezza. Però ci è stato detto da almeno tre medici che per sconfiggere quell'infezione Ines è diventata immune agli antibiotici. E continuiamo a chiederci come sarebbe andata se non l'avesse contratta».



C'è poi l'elenco di piccoli dettagli che sarebbero finiti nel dimenticatoio se non fosse scoppiato il “caso” alla Asl di Brindisi e sui giornali. Se non fosse venuta alla luce l'esistenza di un'inchiesta giudiziaria, se i carabinieri del Nas non avessero fatto acquisizioni su delega della procura constatando l'esistenza di 37 pazienti infettati dal batterio da maggio a settembre scorsi. «Per entrare nel reparto in cui era ricoverata mia moglie - prosegue Salvatore - bisognava passare per un'area in cui ogni oggetto veniva sterilizzato. Come facciamo ora a sapere se le procedure fossero state sempre rispettate? Abbiamo visto entrare personale a fare le pulizie con una scopa avvolta in una garza. In un ambiente che dev'essere sterile. Ad agosto c'è stato un black-out dei condizionatori durato due giorni. Non ci avremmo fatto caso se le circostanze non ci avessero indotto a riflettere». Nessuno può sostenere, al momento, che siano stati fattori dal rilievo particolare anche nella vicenda di Ines Barba. Sarà la magistratura a fare chiarezza. Nel frattempo non si può far altro che raccogliere i documenti, i referti. Mettere insieme elementi, date, responsi medici. Per aiutare chi sta indagando a trovare il bandolo della matassa. A verificare se c'è una correlazione tra la presenza di Klebsiella pneumoniae nei reparti tanto da far necessitare l'istituzione di una task-force e la morte di almeno 20 pazienti dal 2013 a oggi. Gli interrogativi sono tanti: «E' necessario sapere. Lo facciamo per lei - aggiunge Salvatore - lo avrebbe preteso, lo avrebbe voluto con tutte le forze. Era così attenta, una persona speciale che ha saputo attirare attorno a sé anche l'affetto e la simpatia del personale sanitario. Tutti le volevano bene».



Il dolore lascia spazio, adesso, solo alla necessità di ottenere risposte certe, di denunciare per scongiurare il pericolo che succeda ancora, che il dramma si ripeta e tocchi in sorte ad altre persone: « Ines avrebbe forse sconfitto la leucemia. In ospedale ci era entrata per curarsi. E' andata via - conclude il marito - per un'altra causa: e questo in una struttura sanitaria di eccellenza non può capitare».
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