In Puglia si pagano più pensioni che stipendi. Ma c'è di più: in relazione al numero di cedolini emessi dall'Inps rispetto alle buste paga mensili, la regione è al secondo posto in Italia, seconda solo alla Sicilia. A certificare un risultato tutt'altro che positivo è l'ufficio studi della Cgia di Mestre l'associazione che riunisce artigiani e piccole imprese che incrociando i dati Istat e Inps, ha scattato una fotografia impietosa nella differenza tra pensioni erogate e lavoratori ancora attivi.
I numeri
Nel dettaglio, in Puglia i pensionati sono 1.486.000 mentre gli occupati (lavoratori autonomi e dipendenti di fabbriche, uffici e negozi) non vanno oltre il milione e 207mila. Numeri dai quali deriva una differenza tra le due platee pari a -276mila unità. Il dato affossa la regione dietro solo alla Sicilia (-340mila) che paga così a caro prezzo il divario tra lavoratori a riposo e occupati. Ma in linea più generale ancora una volta è il Mezzogiorno a registrare le tendenze negative.
Come hanno evidenziato gli analisti, nelle regioni del Sud si è raggiunta una differenza di -1.244 unità, unica area geografica nella quale si pagano più pensioni che stipendi.
Le cause
Tra le principali cause di questo squilibrio c'è la forte denatalità che da 30 anni caratterizza la regione e fa sentire i suoi effetti anche a livello nazionale. Ormai è certo: il calo demografico ha ridotto la popolazione in età lavorativa. Tra il 2014 e il 2022, secondo Cgia, la popolazione nella fascia di età più produttiva, che va dai 25 ai 44 anni, è diminuita di oltre un milione e 360 mila unità. Un calo del 2,3%. Guardando agli effetti, la disparità tra pensionati e lavoratori apre, dunque, uno scenario preoccupante che rischia seriamente di compromettere la stabilità dei conti pubblici. E ciò è ancora più vero se si tiene conto che a partire dall'anno in corso le pensioni potrebbero costare alla collettività ancora di più a causa dell'inflazione.
«Un Paese che registra una popolazione sempre più anziana fa notare l'associazione potrebbe avere nei prossimi decenni seri problemi a far quadrare i conti pubblici; in particolar modo a causa dell'aumento della spesa pensionistica, di quella farmaceutica e di quella legata alle attività di cura/assistenza alla persona». Intanto proprio in queste ore il governo di Giorgia Meloni è al lavoro per una riforma organica e complessiva della materia previdenziale. Quota 103 con almeno 62 anni di età e 41 di contributi, una rimodulazione delle percentuali di rivalutazione delle pensioni rispetto all'inflazione, una stretta su Opzione donna e l'innalzamento delle pensioni minime a 600 euro limitato agli over 75: sono alcune delle novità in arrivo nel 2023 in attesa che si apra il confronto tra governo e parti sociali a gennaio per arrivare a una riforma complessiva del sistema previdenziale che non si limiti come è accaduto negli ultimi 11 anni, da quando quindi è entrata in vigore la riforma Fornero, a limitati aggiustamenti. Si conferma invece la possibilità di andare a riposo con 67 anni di età non essendo aumentata l'aspettativa di vita e con 42 anni e 10 mesi di contributi indipendentemente dall'età anagrafica (oltre a tre mesi di finestra mobile). La legge di Bilancio ha prorogato per un altro anno l'Ape sociale, la misura che consente a chi ha almeno 63 anni ed è in una condizione di difficoltà di avere un'indennità in attesa che si perfezionino i requisiti per la pensione.