Oltre la svista su Aldo Moro/ Il grottesco che rimarca il declino di una società

Fabrizio Gifuni nei panni di Aldo Moro in Esterno Notte di Marco Bellocchio
Fabrizio Gifuni nei panni di Aldo Moro in Esterno Notte di Marco Bellocchio
di Oscar IARUSSI
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Giovedì 9 Maggio 2024, 13:33 - Ultimo aggiornamento: 14:06

Sui muri di Maglie dove era nato Aldo Moro, in vista dell’anniversario del suo omicidio per mano delle Brigate rosse il 9 maggio 1978, il Comune ha fatto affiggere un manifesto con il volto di Fabrizio Gifuni al posto di quello dello statista. Lo sdegno e il sarcasmo del web e nelle chat hanno offerto all’episodio un’eco nazionale. In anni recenti Gifuni ha interpretato Moro sia nello spettacolo teatrale «Con il vostro irridente silenzio», basato sulle lettere scritte dal leader democristiano durante la prigionia nel covo dei brigatisti, sia nella serie televisiva «Esterno notte» di Marco Bellocchio. In entrambi i casi il lavoro di immedesimazione dell’attore con il personaggio è straordinario: la parola di Moro si fa corpo vivo, mentre la sua proverbiale pacatezza diventa detonante ed evangelicamente scandalosa perché legata alla fede, che vacilla senza crollare. L’invettiva civile di Gifuni nel ruolo di Moro – verrebbe da pensare – è stata talmente efficace da indurre nella clamorosa svista la tipografia delegata alla stampa dell’affiche di Maglie... Il sindaco salentino Ernesto Toma, che ha dato tale versione della vicenda, si è scusato dell’omesso controllo e ha fatto ricoprire i manifesti farlocchi con altri di solo testo.

Viene in mente il celebre incipit di «Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte» di Karl Marx: «Hegel nota in un passo delle sue opere che tutti i grandi fatti e i grandi personaggi della storia universale si presentano, per così dire, due volte.

Ha dimenticato di aggiungere: la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa». Il filosofo tedesco scriveva della Francia dell’Ottocento per il settimanale «Die Revolution» di New York, dove inizialmente apparve a puntate quel saggio illuminante quanto a transizione politica, conflitto tra poteri, populismo e bonapartismo/leaderismo. Possiamo quindi «scusare» Marx di aver a sua volta dimenticato la variante italiana del fenomeno, quella in cui la tragedia e la farsa coesistono, spesso contribuendo entrambe all’identità nazionale. Piero Gobetti parlò di «autobiografia di una nazione» in relazione al fascismo e Federico Fellini in «Amarcord» coglierà la prevalenza dell’abnorme e del beffardo nel regime mussoliniano, una sorta di eterna adolescenza afflitta dal «virus dannunziano» diagnosticato per il Belpaese da Alberto Savinio. Tale primato del grottesco nella trama del tragico scandisce il progressivo – meglio, regressivo – declino di una società invecchiata e stanca, con il tasso di natalità ai minimi e in preda al «sonnambulismo» di cui riferisce l’ultimo rapporto del Censis: «Tra vitalità disperse e un confronto pubblico giocato su emozioni di brevissima durata, la società italiana trascina i piedi».

Dopo il fascismo, l’«autobiografia» tricolore si è arricchita di altri capitoli nella coda del Novecento, fra i quali senz’altro vi sono l’omicidio di Pier Paolo Pasolini nel 1975 e appunto il caso Moro. Secondo Gifuni, che ha interpretato pure Pasolini, il poeta e il politico sono fantasmi che ciclicamente tornano a inquietare la scena pubblica e a interrogarci. Il Moro «fantasmatico» affiora alla ribalta di un magnifico romanzo di Andrea Pomella, «Il dio disarmato» (Einaudi 2022), e, prima, rivive in «Buongiorno, notte» dello stesso Bellocchio, un classico contemporaneo del nostro cinema. Quel film è una rilettura onirica del rapimento del 1978 con una vena di irrealtà, struggente, incarnata allora da Roberto Herlitzka nell’epilogo choc: il prigioniero libero in strada all’alba, sereno e smarrito. Moro inteso come un politico dalla sostanza impolitica e talora quasi lirica (le sue «convergenze parallele» degne di un paradossale ermetismo alla Vittorio Bodini), un potente impotente dall’essenza scespiriana e amletica: «Essere o non essere, questo è il problema». 

Così, chimericamente, ancora una volta Moro è tornato a far parlare di sé grazie, si fa per dire, all’errore di Maglie, nei giorni in cui avremmo un gran bisogno della sua scrupolosa e tenace attenzione verso il Mediterraneo e verso l’Europa, oggi parimenti in fiamme senza che la guerra, dall’Ucraina a Gaza, ci turbi più di tanto. Anzi, come se la guerra non ci riguardasse, almeno a giudicare da una campagna elettorale per il voto europeo povera di contenuti su questo e altri temi cruciali: il cambiamento climatico, le migrazioni, il lavoro, la sanità e la scuola post-Covid, la ricerca e la formazione, il divario fra paesi del nord e paesi mediterranei, la marginalità dell’Unione nel grande gioco Usa-Cina…

In compenso, un altro «fantasma» della storia recente, Silvio Berlusconi, è appena resuscitato sui manifesti elettorali e alza il braccio del successore Antonio Tajani. Intanto una docu-serie Netflix sul Cavaliere da giovane e alcuni interessanti libri degli ultimi mesi o in uscita (Buttafuoco, Del Debbio, Ceccarelli, Ignazi) sfaccettano e scandagliano il protagonista e la sua eredità con cui, tanto per cambiare, non abbiamo ancora fatto tutti i conti. 
 

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