«Pochi parti, vietato nascere nei paesi», un punto maternità su 5 rischia la chiusura

«Pochi parti, vietato nascere nei paesi», un punto maternità su 5 rischia la chiusura
di Valentina Arcovio
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Lunedì 9 Aprile 2018, 00:34 - Ultimo aggiornamento: 10 Aprile, 12:22
La salute della mamma e del bambino prima di tutto. Non è qualcosa che tutti i punti nascita italiani possono garantire. Semplicemente perché non tutti hanno l’esperienza e i mezzi per farlo. Nel nostro Paese, infatti, ci sono donne che partoriscono in strutture considerate a rischio. Si tratta di punti nascita che eseguono meno di 500 parti all’anno. In altre parole, strutture che fanno nascere in media un bambino al giorno. Troppo poco per garantirne la sicurezza.

La qualità di un punto nascita, infatti, si misura con il numero di parti che effettuata. Ecco perché in base all’accordo Stato-Regioni del 2010, tutti i punti nascita che eseguono meno di 500 parti all’anno dovrebbero essere chiusi. Eppure, in Italia di queste strutture piccole ce ne sono ancora tantissime in piedi, secondo www.doveecomemicuro.it, portale di public reporting delle strutture sanitarie italiane aggiornato con i dati del Programma Nazionale Esiti 2017. Sebbene siano calati di numero, passando da 155 nel 2010 a 97 del 2016, sono ancora il 21% del totale. Una quota che non comprende le strutture che effettuano meno di 10 parti annui. Di questi punti nascita a rischio il 37% si trova al Nord, il 20% al Centro e il 43% al Sud. Queste strutture eseguono appena il 5,7% dei parti totali. «Sono passati circa 8 anni dall’accordo Stato-Regioni, eppure sono operativi ancora così tanti punti nascita che effettuano meno di 500 parti all’anno», dice Mauro Stronati, presidente della Società italiana di neonatologia. «In Veneto ci sono punti nascita piccoli rimasti in piedi grazie a delibere regionali. Eppure, in origine - aggiunge – l’obiettivo era quello di chiudere i punti nascita che effettuano addirittura meno di mille parti all’anno, proprio perché considerati a rischio».

GLI SPECIALISTI
C’è infatti un binomio pericolosissimo tra punti nascita piccoli e mortalità peri- e neonatale. «Più la struttura è piccola è più aumenta la mortalità», sottolinea Stronati. «Si stima - continua - che dai 4 agli 8 parti per 1000 si verifica una situazione d’emergenza. Come può affrontarla una struttura che non può garantire la presenza 24 ore su 24 di specialisti, di un centro trasfusionale, di un laboratorio radiologico e così via». Senza contare poi l’assenza della Terapia intensiva neonatale, un reparto «salva-vita» per moltissimi neonati che riportano complicazioni alla nascita. «Uno studio condotto in Portogallo ha rilevato che da quando nel paese sono stati chiusi tutti i punti nascita che effettuano meno di 1.500 parti annui la mortalità perinatale è calata da 9 per mille nati a 3,7 per mille nati e la mortalità neonatale si è ridotta da 4,7 per mille nati a 2 per mille nati», specifica Stronati.

Altro dato emblematico è il numero dei cesarei che si effettuano in queste strutture molto piccole, molto più elevato rispetto ai grandi centri: solo il 7%, infatti, rispetta il valore di riferimento per quanto concerne le percentuali di interventi (che dovrebbe mantenersi inferiore-uguale al 15%): l’86% si trova al Nord, il 14% al Centro e lo zero per cento al Sud. Un numero così elevato di cesarei nei punti nascita piccoli solleva inevitabilmente grossi dubbi sull’appropriatezza di questi interventi. Qualcuno ipotizza che un cesareo è un modo per far nascere un bambino con maggiore tranquillità, evitando brutte sorprese. Ma come dimostrano numerosi studi, sia per la mamma sia per il nascituro, il parto naturale è la scelta migliore.

Tuttavia, la chiusura dei punti nascita piccoli trova molte resistenze soprattutto da parte della comunità che lo ospita. A volte non è solo orgoglio per la propria cittadina, ma anche una questione di logistica: laddove i collegamenti stradali non sono efficienti le donne hanno paura di non riuscire a raggiungere le strutture con più esperienza in tempo. «Sono problematiche complesse – ammette Stronati - ma andrebbero risolte mettendo sempre al primo posto la sicurezza della mamma e del bambino».
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